22 Settembre 2021

La gita

“La pioggia mi fa paura” annuncia con quel suo solito tono infantile e minaccioso mentre mi viene incontro. “E quando piove io me ne resto a casa e mi infilo sotto le coperte”.
Guardo in alto, il cielo si è fatto bianco e compatto. Pochi minuti e in effetti pioverà. E a giudicare dal vento scomposto che tira le cime dei platani, non saranno due gocce.
Non vorrei avesse un ricordo spaventoso della nostra gita e una macchia indelebile sul nostro saluto. Ma ho più fiducia in lei di qualche tempo fa e mi ricaccio in gola la decisione di rimandare.
“Allacciale anche tu” mi dice mentre fa scendere con attenzione la sua cintura di sicurezza. “Oggi non ho voglia di parlare”.
La guardo, sorrido, metto in moto.
Si accovaccia sul sedile infilando a fatica i piedi sotto al sedere.
“Posso stare così? Non dovrei”, dice sottovoce. Non è una vera domanda e non le rispondo. Rimane seduta in quel modo anche se sento le sue ginocchia tirare, e le cosce tese e nervose penso le facciano male. Ha gli occhi chiusi e le mani che tamburellano sulle orecchie. Sembra una bambina. Lo è. Le sorrido di nuovo, anche se lei non lo sa, e guido piano mentre l’asfalto comincia già a bagnarsi.
Non ho una direzione, l’idea originaria era che fosse lei a guidarmi. Ma non dice niente. Ogni tanto sbircia tra le palpebre la pioggia che ora cade forte sul parabrezza.
“Non ho voglia di scegliere”. “Lo so, lo vedo”. La porto io. Non mi importa dove. Le avevo promesso una gita e questa ne rispetta i canoni. Oggi, sotto a questo temporale, la meta sembra importare poco anche a lei.
La strada si vede appena. Ma è agosto, la città è vuota di macchine, e non c’è nessuno in giro a piedi sotto l’acqua.
Giro a caso tra gli incroci del suo quartiere, in fondo alla via riconosco le inferriate della ringhiera dove appendeva il coniglio Bunny quando la faceva arrabbiare, e quando voleva metterlo al sicuro da Giovanna, la sua vicina di casa più grande di un anno ma per fortuna più bassa di lei. Subito dietro c’è la palazzina rosa. È lì, al secondo piano, che era forse rimasto Bunny dopo il suo primo trasloco. “Starà bene a vivere da solo”, le aveva detto sua madre. Lei aveva solo quattro anni ma lo sapeva benissimo che Bunny non avrebbe sopportato di rimanere a lungo chiuso in casa. Sperava fosse saltato dal balcone. Sperava anche si fosse ricordato dell’inferriata. Il pensiero di Bunny infilzato dalla punta triangolare della ringhiera la aveva accompagnata per mesi. Poi per il suo compleanno era arrivata Milly, la mucca azzurra, e di Bunny si era dimenticata. Per anni. Poi se ne era andata anche Milly, forse col treno della montagna. E Bunny era tornato a tormentare le sue notti di bambina. Era in una delle sue notti insonni che continuavano da allora che io l’avevo conosciuta. Quattro anni e mezzo prima di quella strana gita. “Non riesco a dormire, ho perso Bunny, sono Marina”. Così si era presentata alla porta della guardiola del reparto chiuso dove da domani non lavorerò più.
“Andiamo al cimitero. Ma non questo, quello di Neviano. Possiamo?” “Certo, andiamo dove vuoi”. La sorpresa per il suono della sua voce dentro l’abitacolo e ancora di più per la destinazione scelta mi hanno fatto reagire troppo velocemente.
Marina non aggiunge altro e io ho imparato negli anni a non insistere.
“Te la dico io la strada. Non ci vado mai ma me la ricordo” Mi indica col braccio teso di svoltare a sinistra al semaforo. “Ma non so se è la via più veloce”.
“E che ci frega. Siamo in gita”
Ora è lei a sorridere. “Lo so che volevo andare al mercato in ghiaia, oppure al K2 a prendere stracciatella e spagnola”
“Hai cambiato idea. Succede.”
“Sì. Oggi piove. E io ora voglio andare al cimitero. Sempre dritto. Te lo dico io quando si gira”.
“Con questa pioggia il mercato non ce lo saremmo godute, comunque. Secondo me i vestiti delle bancarelle stanno volando via”
“Vestiti che volano! Bello bello bello!” Batte le mani e poi arraffa qualche abito nell’aria. Poi si ferma di botto. “Ma noi andiamo lo stesso al cimitero, vero?”
“Si, certo. I vestiti li possiamo prendere un’altra volta”
“Una maglietta rosa. E un maglione giallo. Senza i bottoni. Quando c’è il semaforo, vai dritto. Se è verde”.
Mi astengo dal chiederle che fare se è rosso. Le battute la offendono e non rinuncerebbe a rispondermi seriamente.
“Va bene, li cercheremo, se andremo al mercato. Oppure potresti provare ad andarci da sola, con l’autobus, una volta” la butto lì nella paura di crearle false aspettative. Di Bunny e di Milly ricorda tutto nonostante i decenni passati, non dimenticherebbe la mia promessa.
“Se ha i bottoni non lo voglio. Odio i bottoni. Mi hanno morso, una volta”.
È strano. Ma mi torna in mente che anche mia sorella detestava i bottoni, da piccola. E io mi divertivo a infilare le mani dentro ai barattoli di alluminio Lavazza dove nonna li conservava, e a lanciarglieli addosso.
“I fiori sulle tombe, quelli sì, mi piacciono tanto. Anche quelli finti. Ma mamma dice sempre che sono pieni di polvere”.
I suoi occhi sono spalancati e attenti alla strada e la pioggia che ancora cade fitta non la disturba da quando ha deciso che sarà lei a condurmi. Mi accorgo che sue gambe non sono più attraversate dai consueti fremiti sottili dovuti ad anni di psicofarmaci mal dosati e i tic del suo volto si sono placati. È ferma. E nella mia mente questa nuova immagine di lei non vuole entrare.
Il cimitero è appena oltre la chiesa, muro di cinta di mattoni rossastri.
Della pioggia fitta rimangono ora gocce sottili e pozzanghere allungate.
Sembra esitare mentre scende dalla macchina, si accorge delle gocce che le bagnano la nuca, e le sue gambe riprendono a tremare.
“Avrei dovuto dirglielo, alla mamma”. Prendo l’ombrello che conservo da anni nel baule, e glielo allungo già aperto, girando attorno alla macchina.
Lei lo afferra chiudendo gli occhi e aumenta il movimento involontario del capo. Sembra volersi scrollare di dosso la poca acqua che l’ha colpita.
“Se vuoi facciamo comunque un giro a vedere i fiori. Così avrai qualcosa da raccontarle, quando torni. Con l’ombrello non ti bagnerai troppo”.
“Ma sì. Dai. C’è mio papà, giù in fondo”.
Lei sembra aver ripreso coraggio. Sono le mie gambe ora a tremare appena. Non capisco. Tira a sé il cancello che non si apre.
“È chiuso? Ma i cimiteri non chiudono. Le edicole chiudono. Alle sette e mezza. E io ieri non ho comprato Chi. Non ho fatto in tempo. Prima lo leggevo e poi te lo volevo regalare. Ma te lo porto domani, prima che parti, così studi un po’ di gossip durante il viaggio. E tieni d’occhio la Hunziker”. Ride mentre il cognome le scappa sulla z ma viene ripreso al volo dalla sillaba successiva, calcata a fondo, come ogni volta che lo pronuncia. È il suo idolo. Conserva da anni tutte le riviste che la ritraggono. Un gran regalo.
“Devi spingere. Si apre così”.
“Strana porta”.
Entro così, al seguito della sagoma incerta di Marina, in un piccolo cimitero di paese a trovare un padre che la cartella clinica del reparto segnalava da sempre come scappato con un’altra donna poco dopo il matrimonio.
“Eccolo. Lassù, vedi? Giuliano Azzali 23-1-42, 12-4-83. I tuoi cari. Che poi siamo io e la mamma. E Bunny. Che c’era ancora. Sono belli i fiori, vero? Anche se polverosi sono belli”.

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