Odio gli autobus. Li detesto. Non per il viaggio in sè, no, di quello non mi importa. Le attese alla fermata sono il vero dramma. Sto qui, sotto il sole, sguardo proteso ad aspettare che il muso arancione si affacci all’orizzonte, mani che accendono mille volte lo schermo del cellulare per controllare l’ora, piedi che si muovono avanti e indietro e ogni volta lo stesso dubbio che non arrivi. Fosse puntuale, poi. Sarebbe rassicurante sapere che ai 17, come dice la tabellina, è davvero qui. Mai successo.
–
Dieci ore dall’ultimo messaggio. Dieci ore in cui ho guardato il telefono quattordici volte. Dodici ore, adesso, e ancora nessuna notizia. Non capisco questo silenzio. Forse si aspetta che sia io a scrivergli? Ma l’ultimo messaggio è stato mio. Ieri pomeriggio. Tocca a lui, se gli interesso si fa sentire lui. Io stavolta non mi muovo. E voglio proprio vedere tra quanto. Ultimo accesso oggi alle 17.38. E’ vivo, dunque. Non che pensassi il contrario. Però almeno avrebbe avuto un valido motivo per non scrivermi. ‘sto stronzo.
Nemmeno la buonanotte. Si è dimenticato di me, sicuro. Smettila di pensare al peggio. Sarà solo impegnato. Mica è obbligatorio che si faccia sentire ogni sera. Quante volte non ci ho fatto nemmeno caso! Oggi però era importante. Avrebbe dovuto pensarci. O appena si è allontanato un attimo avrà scoperto che non gli interesso abbastanza? E’ passato un giorno intero, ormai. Non lo sentirò più. Perché va sempre a finire così? Scrivo.
–
Una fila di formiche mi passa accanto e scende dai gradini del vialetto. Ci sono giorni in cui passo ore a stuzzicarle con un ago del cedro. Oppure a mettere pigne come ostacoli sulla loro strada. Le guardo disorientarsi, perdere la rotta, cercare la strada. Alcune sono più decise e tentano di scavalcarle sporcandosi di polverina gialla, altre più piccole passano sotto, quelle più furbe di lato. Applaudo quando ci riescono. Ce n’è sempre una per cui faccio il tifo. Oggi invece le guardo con la coda dell’occhio infilarsi tra i miei piedi scalzi. Vorrei occuparmi di loro ma i rumori della strada sono più importanti. Ogni macchina che passa spero rallenti la corsa. E che sia rossa. Papà ha detto: Starà arrivando. Sì, ma quando? Non vuole che glielo chieda più, ha detto. Vedrai che arriva. Vai ad aspettare al cancello. Ma più tempo passa di questo pomeriggio, meno tempo staremo insieme. Non mi interessano proprio le formiche oggi. Perché le formiche non sanno di borotalco e brillantina.
–
Disperso, hanno scritto. Non tornerà, dunque. Smetti di aspettare. No, questo non lo hanno detto mai, era sottinteso. Gli hanno anche intitolato una via in paese. A lui e a tutti gli altri poveri ragazzi. Per rendere la cosa più definitiva. Per far sì che noi parenti ce ne facessimo una ragione e possibilmente ci rassegnassimo a non sapere. Ma io non ho mai smesso di domandarmi dove fosse. E di cercare notizie, per come ho potuto. Prima, ogni giorno pregavo il Signore che gli stesse accanto.
Oramai non lo faccio più tutti i giorni. Avrà una famiglia, pensavo. Avrà dimenticato da dove viene, per qualche motivo. La guerra è una roba che ti cambia. Che ti fa male dentro. Ma prima o poi tornerà a casa. Ero sicura.
Ora non lo penso più, a dire la verità. Sono passati troppi anni. Ma non posso comunque smettere di aspettarlo.
–
Ora arriva. Non lo sento ma so che non è lontano. Starà cercando nel garage. Guarda sempre negli stessi posti, scemo. Eccolo. Credo sia lui. Vorrei guardare ma se mi affaccio dietro la legna mi becca sicuro. Resisti, stai immobile. E’ lui. Prova a non farsi sentire, ma la ghiaia fa rumore sotto i piedi. Se giro dietro al pino, lo frego. Se corro più forte che posso ce la faccio. Ma li ha presi già quasi tutti, gli altri, e allora se aspetto ancora un po’ io posso salvarli. Tutti insieme. Anche Lucia. Che ride tanto quando facciamo “Tana libera tutti”. Ride, salta e mi abbraccia. Sto fermo. Aspetto. Merda. Mi ha visto. Corri, Marcello, corri. L’attesa è finita.
–
Me la ricordo quando aveva neanche tre anni e saltava i gradini a due e due tenendomi le mani. “Volo papà. Volo”. Rideva. E io con lei. Qualche volta cascava. E rideva più forte. E io la aiutavo a rialzarsi. Temevo le sue ginocchia sbucciate. Lei no. È sempre stata coraggiosa, lei. Certo più di me. Come due mesi fa, “Papà, io mi sposo. Lo amo da morire”. Mica glielo avevo mai sentito nominare prima, il matrimonio. E ancora meno l’abito bianco. A me di certo non è mai importato. Anzi.
Non ha voluto che ne sapessi niente del vestito. “Facciamo le cose tradizionali, per una volta, papà”. ha detto. “Così forse per una volta riesco a farti commuovere”.
E io vorrei già piangere mentre la aspetto con una birra tra le mani e la felicità che mi scoppia dentro, e ancora di più quando sento aprirsi la porta della camera dove non dorme da anni. Ma Chiara batte forte le mani e sono troppi i parenti qui attorno. Il vestito è davvero bianco e il rossetto rosso. Incrocio i suoi occhi lucidi mentre il suo cuore batte insieme al mio. “Sei bellissima” le dico sottovoce. “Lo so” mi risponde ridendo e piangendo insieme. E poi, buttandomi le braccia al collo “Volo, papà. Volo” “Lo so. Anche io”.
Bellissimi
Grazie Chiara. Come sempre.